"Sweet Home
Swindon"
Frammenti di conversazione con Andy e Charlie Parker
dal volume "XTC" di Vittorio Azzoni
|
Intervista realizzata da Vittorio Azzoni a Swindon (Old
Town), nel giardino di casa Partridge, il 7/8/1985. |
Vittorio Azzoni:
"Three Wise Men" e "Dukes of
Stratospheare"... Anche gli stessi XTC possono considerarsi
come un travestimento? Senza raggiungere l'anonimato dei
Residents, siete forse la maschera di facciata dei tanti
favolistici travestimenti nel travestimento?
Andy Partridge:
«Sì. È proprio così. Siamo però
arrivati ai Three Wise Men perché un giorno abbiamo scoperto
una canzone, Thanks for Christmas, difficilmente
collocabile nel repertorio XTC: troppo dolce ma tutto
sommato piuttosto gradevole. Così ho preferito che ci
lasciassero fare il pezzo sotto un altro nome, anche se poi
molte persone avrebbero preferito un'incisione ufficiale.
Per quanto riguarda i Dukes of Stratospheare, il discorso è
completamente diverso: è in pratica uno spiritoso
ringraziamento a tutta la gente che ha suonato questa musica
nel 1967. Fu allora - tra l'altro - che acquistai il mio
primo disco, Baby Come Back degli Equals... Anzi, fu
nel 1968».
V.A.:
Ma non mi hai ancora parlato del vostro
travestimento... Palombari del Mar Nero, Mummers, pionieri
delle "British Railways"!
A.P.:
«Probabilmente sono un po' lo specchio della
nostra introversa personalità. L'essere un personaggio
pubblico, o anche solo tra il pubblico, mi attira quanto mi
spaventa. Allora si spiega la tendenza a scegliere
situazioni e immagini atte a mettermi in mostra e,
contemporaneamente, a nascondermi».
V.A.:
Ma sono travestimenti spontanei. oppure frutto
di precise ricerche sul rinnovamento del vostro look "anti-
look"?
A.P.:
«Sai, quando consumo il rito della toilette
scelgo la compagnia di qualche lettura. Una volta presi
un'enciclopedia per ragazzi e scoprii alcuni disegni dei "mummers".
Approfondii poi la ricerca in biblioteca e fu una vera
sorpresa: il concetto del "mummer" era praticamente
parallelo alla politica del nostro gruppo. In epoche lontane
i "mummers" erano gente del tutto comune, proveniente dai
villaggi di campagna: svolgevano lavori molto semplici e,
diverse volte l'anno, usavano travestirsi con costumi fatti
in casa, particolarmente bizzarri. In ricorrenze come
l'Ultimo dell'anno, per esempio, intrattenevano la
popolazione con strane rappresentazioni, mimi e canzoni in
cui la messa in scena culminava con l'uccisione simbolica
del vecchio anno. E il giorno seguente queste persone
rientravano nei panni del quotidiano, senza vivere un ruolo
da star. Mi identificai a "tal punto in quest'idea che avrei
desiderato cambiare il nome del gruppo con questa parola
ricca di fascino: "mummer"... Tra l'altro sembra che fossero
originari principalmente della Inghilterra e in minor misura
del nord della Francia, della Bretagna e del Canada. Tengo a
precisare che non si trattava di persone legate allo
"show-business", esattamente come noi...».
V.A.:
Prima hai parlato della psichedelìa dei "'60"
verso cui vi siete rifatti a proposito di "25 O'Clock".
Cosa pensi invece dell'attuale riflusso neopsichedelico?
A.P.:
«Penso che queste bands non siano mai
abbastanza psichedeliche, non posseggano la giusta magìa.
Trovo alquanto stupido riproporre con assoluta serietà e
convinzione rivendicazioni appartenenti al passato. Puoi
solo dare una certa impressione, comunque priva dei supporti
originali: anche perché non potrai mai rivivere i "Sessanta
" una seconda volta. Al massimo si potrà avvertirne una
pallida ombra».
V.A.:
Sulla fanzine "Opel" ho letto che un certo Alan
Duffy vorrebbe contattarti, insieme a Julian Cope tra gli
altri, per il progetto di un album di "remakes" barrettiani...
A.P.:
«Personalmente non ho ancora sentito nessuno a
questo proposito. Penso comunque che gli unici veri Pink
Floyd siano stati quelli del "periodo Barrett"; ricordo che
a quell'epoca sul mio "piatto" c'era un menù fisso:
Scarecrow, il lato B del 45 giri See Emily Play.
Semplice come un brano delle "charts", ma assolutamente
meraviglioso; a tal punto che lo macinai così tante volte da
arare i solchi del vinile.
«Solo recentemente ho comprato per la prima volta
The Piper at
the Gates of Dawn, e per essere più preciso è stato
quando dovevamo preparare l'album dei Dukes of Stratospheare.
Bisognava consultare alcuni riferimenti imprescindibili
della psichedelia per rispolverare, storicamente, quel
particolare tipo di sound. Abbiamo confrontato anche alcune
cose dei Beatles, e Their Satanic Majestic Request
degli Stones».
V.A.:
Dal punto di vista compositivo hai un approccio
di tipo accademico con il materiale sonoro?
A.P.:
«Direi proprio di no, se consideri che non so
ne leggere ne scrivere una sola nota. Memorizzo su nastro
ogni spunto sonoro che risuona nella mia mente o che scopro
mentre strimpello; oppure riporto la posizione delle note e
degli accordi secondo una tablatura. Leggere e scrivete
secondo il metodo tradizionale non è una premessa
indispensabile per poter far musica».
V.A.:
Infatti le vostre canzoni armonicamente sono
ben sviluppate pur mantenendo una certa distanza di
sicurezza dai luoghi comuni della pop music...
A.P.:
«Non c'è motivo di essere banali quando si è
coscienti della troppa banalità che ci circonda».
V.A.:
Come ti sei trovato con i vari produttori
incontrati dal '78 ad oggi?
A.P.:
«John Leckie, il nostro primo produttore, ha
una personalità molto moderata e distinta. Non interferisce
minimamente con la tua musica, lasciando carta bianca ai
tuoi desideri e alle tue volontà. Sicuramente è più vicino
alla scuola degli ingegneri del suono in quanto sa catturare
esattamente ciò che vuoi. Realizzammo White Music
senza molte esitazioni, all'istante, certo lontani da una
produzione tecnica speciale e quasi interamente in diretta.
«L'abilità ingegneristica di Steve Lillywhite, è invece molto
aggressiva e, durante le registrazioni, strumenti come la
batteria e la chitarra elettrica ne escono quasi sempre
caricati, grintosissimi. Non è un caso che gruppi come U2 e
Big Country siano stati segnati "metallicamente" dalla sua
produzione, un po' come da un marchio di fabbrica. Devo dire
che alcune volte il suo missaggio è molto irregolare, poco
equilibrato; ma è comunque veramente in gamba nel trascinare
il gruppo, nell'infondere energia ed entusiasmo ottenendo
sempre il massimo da ogni musicista.
«Hugh Padgham, quello di
English Settlement, è un produttore
con cui si lavora facilmente, e in questo è simile a John
Leckie. Crede in quello che fai anche se il suo
"mixing-style" è certamente più pesante.
«In
Mummer abbiamo commesso qualche errore con Steve Nye. In
un primo momento fummo attratti da lui perché ci aveva
colpito il suono di Tin Drum dei Japan; poi non si
creò una grande intesa con un carattere così "dark" come il
suo! Certe volte non pronunciava parola per tutto l'arco
della giornata: lo salutavo con un fragoroso "buongiorno" e
lui mi rispondeva a malapena un muggito di circostanza. A
conti fatti non abbiamo ricavato un gran successo dal suo
apporto.
«Mi piace invece lavorare con David Lord, un autentico gentleman
inglese, estremamente corretto. Anche se in realtà non
sembra per niente un produttore: assomiglia semmai a un
hippy novantenne, con un dente solo, lunghi capelli grigi, e
matto come un compositore. Molti suoi pezzi orchestrali
vengono trasmessi dalla radio, e ha scritto del materiale
per il chitarrista John Williams. Tra l'altro è anche
l'organista della cattedrale di Canterbury, e ha ricevuto
una formazione musicale decisamente classica. Di lui
apprezzo la qualità particolare che sa ottenere dal suono.
Il suo unico difetto è la lentezza: il lavoro di un mese
fatto con qualsiasi altro produttore puoi portarlo a termine
dopo cinque con Lord. La classe ha evidentemente un suo
prezzo».
V.A.:
Si sente spesso parlare degli XTC come dei
nuovi Beatles... Che sia vero o falso non ci interessa.
Piuttosto, vorrei sapere come reagiresti se ti proponessero
una collaborazione con Paul McCartney. Già da tempo ormai
Paul sta attraversando un periodo di stanchezza compositiva.
Credo sinceramente che tu sia l'unico musicista a lui
compatibile, in grado cioè di stimolarlo, di scuoterlo.
Capace, insomma, di dargli una mossa...
A.P.:
«Diciamo pure che Paul sta perdendo tutti i
suoi denti. Purtroppo credo che non abbia una grande
opinione riguardo tutto ciò che fa, proprio perché non ha
nessuno attorno che in qualche modo gli si contrapponga.
Vorrei potergli dire: "No, questo non va". Ma intendiamoci:
solo perché mi piacerebbe lavorare con lui. Sarebbe
estremamente gratificante per me un simile incontro, visto
che i Beatles sono stati la mia più grande influenza).
V.A.:
Come lavori di solito con Colin e Dave?
A.P.:
«lo e Colin scriviamo separatamente, e solo in
un secondo tempo ci confrontiamo, mentre Dave agisce da
filtro: sa suonare ottimamente diversi strumenti, ha un buon
orecchio e sa leggere la musica» .
V.A.:
Come chitarrista avrai senz'altro avuto qualche
modello, qualche simpatia...
A.P.:
«Il mio chitarrista preferito è sempre stato
Ollie Halsall. E lo è tutt'ora».
V.A.:
Come nasce una canzone di Andy Partridge?
A.P.:
«Non esiste una formula generale: a volte
inseguo una linea, scarna e semplice, che diventa come il
punto di partenza per uno scavo nel deserto. Togliendo
progressivamente la sabbia si arriva a scoprire una
piramide. Altre volte invece può essere una struttura di
accordi con una spiccata potenzialità evocativa - nebbia,
pioggia, cielo... -, e ciò è sufficiente per collocare il
mio pensiero in una certa direzione. Vengo indotto da
suggestioni figurative esterne all'organizzazione musicale.
Come si è verificato per esempio con i due accordi iniziali
di This World Over ottenuti con l'accordatura aperta
in "mi". Tra l'altro, con la stessa "open tuning" sono stati
scritti la maggior parte dei brani di The Big Express.
«Prendiamo un altro brano dello stesso disco,
Seagulls Screaming,
che è praticamente l'unico che abbia mai composto a due mani
su una tastiera. Fu durante le sessions di Mummer che
cominciammo a pensare a qualche strumento diverso dal
solito: un mellotron? Perché no?. Così, quei primi strani
accordi che ne uscirono mi ricordavano la spiaggia d'inverno
(anche se non ero in grado di denominarli armonicamente). So
solo che l'atmosfera era veramente primitiva, di scoperta.
Melodicamente sono attirato dallo sviluppo contrappuntistico
di due o più linee, quasi come se coesistessero più canzoni
in una. Sempre in Seagulls Screaming ci sono due
linee che si scontrano, per cui si creano risultanti di note
e intervalli non sempre regolati secondo le leggi della
composizione accademica.
(Ridendo) «Puoi immaginarti le reazioni di David Lord di fronte a
simili devianze! Mi piace accostare melodie che procedono
per semitoni, e devo dire di essere abbastanza fiero di
questo brano perché nato da uno strumento che non conosco».
V.A.:
Non avete mai usato il CMI (Computer Musical
Instrument, più noto come "Fairlight")?
A.P.:
«No, però abbiamo utilizzato per la prima volta
un "Emulator II'' in un pezzo intitolato The Everyday
Story of Smalltown. Nel "demo" realizzato con il mio "Portastudio"
casalingo ho incluso delle parti di kazoo simulanti
l'effetto di una "brass band". Come nella mia camera da
letto, ma per altri motivi anche in studio, non riuscimmo a
convocare in tempo una "brass band" e fu allora che si pensò
all"'Emulator". Una scelta azzeccata solo in parte perché
non si arrivò a una giusta proporzione di strumenti a fiato
classici e di sax. Ovviammo anche a questo inconveniente
aggiungendo due piste di kazoo a tutto il resto.
«Quando posso, comunque, cerco sempre di inserire i suoni degli
strumenti reali, anche se è meno comodo: sai, ho una
diffidenza di fondo nei confronti dei sintetizzatori» .
V.A.:
Non avete mai provato a incidere un solo
strumento in stereo?
A.P.:
«No, è una cosa che non abbiamo ancora fatto.
Ma mi piacerebbe poterlo fare, magari con un pianoforte.
Abbiamo però un trucco particolare che usiamo per la "Rickenbacker"
12 corde di Dave o per le mie chitarre con cassa armonica
semi-acustica. E un mio accorgimento con cui 'si può rendere
molto puro un suono elettrico. Consiste nel mixare il
segnale elettrico in uscita dall'amplificatore, con il
segnale di uno o due microfoni piazzati davanti alla
chitarra per catturare il tocco delle dita sulle corde. In
questo modo si ottiene una meravigliosa profondità di suono,
con uno spettro sonoro che non potrai mai ottenere da un
qualsiasi altro trattamento. In English Settlement
abbiamo inciso molte piste con questo sistema, ma anche in
Train Running Low on Soul Coal, di Big Express,
Dave ha sfruttato questo accorgimento».
V.A.:
Da un punto di vista grafico avete sempre avuto
una specie di culto quasi fiabesco per le "covers" dei
vostri singoli...
A.P.:
«Tra le mie preferite c'è sicuramente quella di
No Thugs in Our House. Di solito ho un'idea ben
precisa dell'immagine che voglio sulla copertina. Poi è il
grafico Ken Ansell della "Design Clinic" a dare forma sulla
carta alle mie elucubrazioni mentali. Nel caso specifico
volevo qualcosa che richiamasse alla mente i teatrini
inglesi del secolo scorso.
«Sono portato a vivere la musica immaginandola attraverso una serie
di situazioni che si ricollegano alla tradizione
dell'immagine. Se scrivo una canzone è perché ho un quadro
nella mia testa, non un video. Per questo sono convinto
dell'importanza delle copertine nel fissare attraverso un
segno particolare l'idea di una certa musica. Il ricordo di
una "cover" rimanda alla musica contenuta, e quindi ad altre
immagini, mentre invece il video esprime il concetto "big-brotheriano"
per cui tutti devono vedere, quindi non immaginare
individualmente, una medesima sequenza filmica. Credo che la
musica sia fatta sostanzialmente per le orecchie, non per
gli occhi.
«Comunque, mi sento molto coinvolto nel progetto di una copertina,
al punto che non mi fido troppo delle idee altrui. Anche
perché scrivendo i pezzi scopro un "feeling" più naturale e
genuino nell'esprimere questa relazione. Una sola volta è
capitato a un'altra persona di ideare una "sleeve" degli XTC:
con il singolo Statue of Liberty , in assoluto la
peggiore della nostra discografia».
V.A.:
Graficamente, hai avuto una formazione
specifica o sei un autodidatta?
A.P.:
«Ho frequentato l'"Art School" di Swindon ma
penso di non aver mai imparato niente: infatti preferivo
passare il mio tempo lontano dalla classe, magari nei parchi
a imparare a suonare la chitarra, bevendo nei pubs, e
disegnando bassorilievi sulle tavolette di linoleum. Mi
divertivo un mondo a copiare immagini, francobolli,
banconote, insegne, marchi, soldatini... Un passatempo che
pratico ancora oggi».
V.A.:
Veniamo alle tue collaborazioni: ascoltando il
disco di Riuichi Sakamoto B-2-Unit ho avuto
l'impressione che il tuo apporto sia stato poco naturale,
direi quasi ristretto"...
A.P.:
«In realtà c'è sotto una strana storia. Quando
il mio album solo Take Away stava per uscire in
Giappone, la Virgin chiese a Sakamoto una recensione del mio
disco da pubblicare sull"'inner-sleeve". Fu una critica
molto positiva, la sua, a tal punto che mi inviò un
telegramma offrendoini la produzione del suo nuovo album.
Rinunciai perché stavo lavorando al nuovo XTC, ma Sakamoto
insistette suggerendo che avrei potuto limitarmi alla sola
collaborazione pur di accontentarlo. E non potendo rifiutare
quel ruolo meno impegnativo gli chiesi, data la distanza che
ci separava, come avrei potuto conciliare i due impegni
senza creare disagi a una delle due parti .
«Fu così che mi spedì i suoi nastri per i quali preparai delle
parti di chitarra in diversi stili, muovendomi secondo un
procedimento tecnico a mia scelta. Impiegai un giorno per
allestire i nastri che avrei dovuto rispedirgli e dei quali
poi Sakamoto avrebbe scelto le parti più adatte. Affittai
l'AIR Studio di George Martin a Londra, ed ero veramente
soddisfatto di quel materiale orientaleggiante: ad ogni
pezzo corrispondevano diverse linee di chitarra.
«Utilizzando un piccolissimo amplificatore americano, il più
piccolo che sia riuscito a trovare, e piazzandolo al centro
dell' enorme sala, mandai il suono in "overdrive" con un
grande "fuzz-box", dopo aver posizionato il microfono a
distanza. Quello che ne usciva somigliava più all'urlo di
certi uccelli, o al barrito di elefanti, che al suono di uno
strumento a corde.
«Alla fine spedii il tutto a Sakamoto, e devo ammettere che quando
il disco fu pronto non mi piacque per niente. Sarà stato il
tipo di missaggio a causare certi sconvolgimenti: un
intervento maldestro, assolutamente privo di tatto e di
gusto, e direi anche troppo pesante. Doveva apparire come
qualcosa di più "soft"; rispetto a quella brutalizzazione,
la musica originale era tutt'altra cosa, rarefatta,
gradevole! Così, dopo aver ascoltato B-2-Unit avrei
preferito manovrare personalmente il banco del mixer. Ma non
sono mai stato consultato sull'esito finale del "rimpasto";
forse un mio parere non avrebbe guastato».
V.A.:
E a proposito della tua produzione di
The
Naked Shakespeare di Peter Blegvad?
A.P.:
«La ragione per cui ho lavorato insieme a Peter
è molto semplice: la Virgin gli aveva proposto una rosa di
produttori per il suo primo album solo. Ci incontrammo a
Londra per la prima volta e mi disse: "Ho deciso di mettermi
con te perché alcuni amici mi hanno detto che eri morto. O
meglio, hanno sentito circolare queste voci. Sai, mi ha
sempre eccitato l'idea di entrare in contatto col mondo
dell'aldilà". Una circostanza veramente anomala e anche un
po' imbarazzante per me. Comunque è stata un'esperienza
molto gratificante, e non solo come produttore ma anche come
musicista, dal momento che Peter non disponeva di un set di
strumentisti ben definito - giusto qualche amico di
passaggio» .
V.A.:
Ne è uscito un disco aperto, piuttosto
eterogeneo, con tutte le canzoni differenziate, a episodi
indipendenti...
A.P.:
«Mi piacciono in particolare la prima e
l'ultima canzone del lato B. Tutto sommato è un album
divertente al quale ho potuto contribuire senza assumere il
ruolo del controllore al di sopra e al di fuori della
situazione».
V.A.:
Mentre della collaborazione con Joan
Armatrading cosa ricordi?
A.P.:
«A dire la verità non ho nemmeno una copia di
Walk Under Ladders, non me l'hanno mai spedito. Steve
Lillywhite, allora nostro produttore, mi disse che aveva
bisogno di un chitarrista; all'inizio, l'incontro con Joan
non fu particolarmente brillante perché cominciai subito a
suonare seguendo il mio solito istinto musicale. In realtà
non ci fu molto "feeling" e si creò una situazione
difficile. "Non in questo modo" - diceva - "prova così".
Naturalmente le risposi che poteva fare da sola ciò che
voleva facessi io, e lei: "No, devi suonare tu" . Così ho
contribuito sopportando certe pressioni finché, a un certo
punto, decisi di sospendere le restanti "sessions"; non
riesco a suonare in circostanze troppo restrittive» .
V.A.:
È vero che sei stato chiamato anche dai
Residents per partecipare alla registrazione di un loro
disco?
A.P.:
«Yes, I'm a Residents. Sono stato un Residents
per circa un minuto in un pezzo di Commerciai Album,
dove ho cantato con un falso registro operistico. Una volta
espressi a qualcuno della Virgin il desiderio di incontrare
questa band misteriosa, e dopo un nostro concerto a San
Francisco vennero proprio i Residents a farci visita nel
"back-stage". Il giorno dopo ero già in studio con loro: mi
misero davanti il testo di un loro pezzo dicendomi che una
volta pronto potevo cominciare. Così, all'istante, senza
particolari istruzioni o chiarimenti; solo un breve cenno al
contegno estremamente pomposo con cui avrei dovuto modulare
la voce. Comunque, tanto per intenderci, i Residents non
sono i Mallard come invece qualcuno sostiene» .
V.A.:
Tu sei uno dei musicisti preferiti di Peter
Gabriel. Sappiamo che Dave Gregory ha già collaborato al suo
terzo disco. Vorrei sapere se anche a te interesserebbe fare
qualcosa con lui...
A.P.:
«Apprezzo molto le sue musiche, ma fino a
questo momento abbiamo sempre avuto dei contatti molto
formali... Sì, mi piacerebbe scrivere insieme a lui, e credo
che il suo terzo Lp spezzi molti luoghi comuni della pop
music, suonando in un modo realmente fresco anche a distanza
di tempo. Un po' come è successo con Low di David
Bowie».
V.A.:
Credi che nella vostra musica non esista alcun
nesso con la "folk-music", dato che sulla copertina di
White Music - nell'edizione italiana - compariva
l'etichetta "PUNK"?
A.P.:
«Quello è stato un tentativo della casa
discografica per cercare di promuoverci e venderci in un
periodo legato al fenomeno "punk". Verificammo personalmente
questo fatto durante il primo tour italiano, quando al
nostro arrivo negli uffici della Virgin trovammo contro le
pareti di una stanza un sacco di nostri dischi marchiati.
Alla scoperta seguì un'eco di (con tono scandalizzato):
"Cos'è questo? Cosa significa questa parola?". La nostra
sorpresa era il segno evidente del trucchetto che ci era
stato giocato. Per quanto riguarda il discorso sul folk,
francamente non sono mai stato influenzato da questo genere
musicale: anche se apprezzo il concetto folk di una musica
semplice fatta da e per persone semplici».
V.A.:
Tornando per un attimo al passato, come mai
l'unico vostro "remake" è stato un pezzo di Bob Dylan,
All Along the Watchtower?
A.P.:
«All' epoca di White Music eravamo indecisi
sulla scelta del "remake" - Citadel degli Stones o
All Along the Watchtower. Entrambi possiedono una gran
forza d'urto nel testo. Decidemmo per la "cover" di Dylan
quasi per caso, ma si trattò per lo più di un grosso errore
visto che Hendrix l'aveva già interpretata così bene! La
nostra fu una versione "live" in studio, senza particolari
effetti o sovraincisioni.
«Ricordo anche un'altra "cover" che inserivamo durante i primi
concerti: era firmata da Jerry Anderson, con atmosfere stile
Thunderbirds e un tema twisteggiante di nessun valore, quasi
"surf music". Quando sul palco avevamo particolarmente
voglia di divertirci, ripescavamo questa vecchia sigla di un
programma televisivo per marionette spaziali».
V.A.:
Visto che abbiamo parlato di Dylan e Hendrix,
facendo un confronto tra il "songwriter" dei "Sixties" e
quello degli anni Ottanta, quali nomi citeresti come
migliori esempi?
A.P.:
«Ray Davies dei Kinks per gli anni Sessanta:
parole molto semplici per canzoni altrettanto semplici, ma
anche magiche. Magiche case, magiche strade, magici cibi,
tutto un mondo magico. Di un tipo di magÌa che investe il
quotidiano, non il sensazionale, il fantastico. Per gli anni
Ottanta potrei citare Peter Blegvad, specialmente per i
testi del nuovo Knights Like This.
«Attualmente mi piacciono anche i Fine Young Cannibals, con due ex
Beat e un cantante che assomiglia a Nat King Cole e canta
come Desmond Dacker: hanno un sound eccitante, con elementi
ska, blue-beat e una spruzzatina di be-pop data dal
trombettista. Un altro gruppo promettente è quello dei Blue
Nile: penso che il loro album sia in assoluto una delle cose
migliori prodotte dalla Virgin. Per favore, non parliamo di
David Sylvian: trovo noioso il suo manierismo, è troppo
studiato».
V.A.:
Per concludere, parliamo un po' di te: ti
consideri un timido?
A.P.:
«Sì, ed è un modo per rimanere sempre me stesso
anche quando mi trovo tra la gente: è un po' il frutto della
mia natura e agisce in funzione di autodifesa».
V.A.:
Come commenti la frase di Paul Simon: «Le cose
che nascono dal cuore, e non parlo di quelle più ricercate,
sono sempre le migliori»?
A.P.:
«Per me la soluzione migliore sta nel combinare
il sentimento con la mente, due componenti che non agiscono
mai separatamente. Troppo cuore produce melassa, e troppa
testa agisce da zavorra: due aspetti che trascinano sempre a
terra».
V.A.:
Visto che alla conversazione è presente anche
Charlie Parker (il suo setter irlandese): perché sei
più legato al cane piuttosto che al gatto?
A.P.:
«Il gatto è molto indipendente e non ha bisogno
di sentirsi amato...».
V.A.:
E se tu fossi un animale diverso dall'uomo
quale animale vorresti essere?
A.P.:
«Una scimmia... Giocosa, un po' primitiva,
labbra dure... Attributi che comunque ci accomunano».
V.A.:
Quali sono le tue quotidiane attitudini
comportamentali?
A.P.:
«A livello di studio mi piace osservare la
gente, per esempio, mentre non mi piace concentrarmi in modo
esclusivo su un unico aspetto della vita. Infatti le mie
canzoni comprendono diverse cose: divertimento, amore,
tristezza, politica, non-sense...».
V.A.:
A proposito di canzoni: se è vero che odii
l'automobile, come si può leggere da un tuo intervento su "Melody
Maker" (1/12/1984), perché hai scritto un pezzo dedicato
all'elicottero?
A.P.:
«Non mi piacciono nemmeno gli elicotteri;
Helicopter è solo una canzone di pura "fiction": devi
sapere che quando ero bambino rimasi affascinato da una
pubblicità della Lego che diceva: "Due bambini stanno
volando sopra la città di Lego". Poi un giorno, "da grande",
mi sono ricordato di quanto questa cosa mi avesse
entusiasmato, e nacque lo spunto per la canzone. Comunque,
tornando al discorso dell'automobile, se fossi il re del
mondo ne proibirei l'uso, soprattutto di quelle veloci.
L'auto è il simbolo della fallomania degenerata in pazzia» .
V.A.:
Il tuo modo di pensare e di interpretare la
vita sembra avere molti legami con il mondo dell'infanzia.
Pensi che sia difficile restare bambini per tutta la vita?
A.P.:
«È un mio obiettivo costante, e richiede il
massimo della concentrazione. Colleziono giocattoli, libri
per bambini... Vorrei restare bambino, sai, ma è molto
difficile...».
V.A.:
Perché?
A.P.:
«Puoi diventare così cinico da indurirti,
mentre dovresti rimanere rilassato e semplice. Bisognerebbe
prendere le cose migliori dell'infanzia; non tutto però,
perché i bambini sanno anche essere molto crudeli con gli
altri, con i genitori, nei loro giochi, pur non avendone
coscienza. Per cose migliori intendo, ad esempio quell'entusiasmante
freschezza con cui si avvicinano alle cose. Puoi dunque
sforzarti di mantenere sempre viva la tua mente, lasciandoti
alle spalle la crudeltà e conservando la parte più pregiata
di ogni età. Invecchiando, dovresti avere il catalogo dei
migliori estratti della tua vita, come la vitalità e
l'invenzione dell'uomo giovane, per esempio» .
V.A.:
Puoi raccontare qualcosa sui giochi della tua
infanzia ?
A.P.:
«Il mio giocattolo preferito era una specie di
piatto metallico capovolto, con sopra un circuito percorso
da un treni no su cui si alzava un cavetto collegato a un
aeroplano. Restavo incantato per ore e ore di fronte a
questo ipnotico moto circolare di terra e di cielo».
V.A.:
Puoi sempre considerarlo uno spunto per una tua
canzone... (Risata)
A.P.:
«Ricordo che all'età di cinque anni mia nonna
non aveva praticamente nulla per farmi giocare, a esclusione
del Domino, che usavo per costruire strane forme servendomi
dei suoi elementi...».
V.A.:
Nella serie strumentale degli "Homo Safari"
riemerge la passione del giovane Andy che gioca
all'esploratore? C'è un filo conduttore che lega questi
brani sparsi un po' ovunque nella vostra discografia dei
singoli?
A.P.:
«Lo chiamo "cassetto degli scarti", e contiene
tutti i nastri di quei pezzi non completamente riusciti, coi
quali non so bene cosa fare, e per i quali non riesco a
scrivere dei testi appropriati. A volte può anche capitare
che queste strane creature vengano rispolverate per riempire
le "B side". L"'Homo Safari" è, in un certo senso, un centro
d'adozione per queste creazioni bastarde e un po' strane.
Sul retro dell'Ep Gold Fire [sic] compaiono due pezzi
di questo tipo, Frost Circus e Procession Towards
Learning Land: il primo di essi è stato scelto come
"jingle" dalla televisione giapponese per una pubblicità di
cosmetici per adolescenti».
V.A.:
Perché nel brano di Moulding
Day In Day Out
si parla del venerdì come di un giorno paradisiaco?
A.P.:
«Di solito, durante i primi giorni della
settimana lavorativa, l'idea di essere condizionati da certi
ritmi, magari passando il tempo con gli occhi puntati
sull'orologio, non induce mai nessuno ad alzarsi dal proprio
posto e fuggire, cambiare aria... Il venerdì invece è atteso
come il giorno degli agguati, e si respira un'atmosfera
stranamente più festiva del week-end stesso: fughe, ultima
speranza...».