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Venere e il Tagliaerba
intervista a Andy Partridge

di Riccardo Bertoncelli

 

Rockerilla n. 229 - Settembre 1999

 

   Andy Partridge ha 45 anni ma ha ancora l'aria dei monello di classe, quello che a testa bassa e con un sorrisino sbieco smolla le viti della cattedra o sistema un petardo sotto la sedia della ragazza dai capelli rossi. E' in tour promozionale per parlare di "Apple Venus" e salutare il ritorno degli XTC, i nuovi, 'minimali' XTC (Partridge & Moulding). E' straordinariamente gentile e disponibile. Firma anche begli autografi, con buffi disegnini in stile 'this is pop'. So che a casa ha tutta una collezione di dipinti e fumetti di mano sua, ed ecco un motivo in più per andarlo un giorno a trovare. 
Spiace che l'intervista sia su carta e non in video. Dovreste vederlo come gesticola, rotea gli occhi, ridacchia, fa rumori con la bocca. Uno spettacolo. 

 

Puoi riassumermi in poche parole la storia di questi ultimi 'anni oscuri'?
 «Ah, ah,'anni oscuri'... Mi piace, rende l'idea. Dunque. Nel 1992, quando uscì "Nonsuch", la Virgin lo promosse sì e no tre settimane, poi lo lasciò morire. lo ero imbestialito. Fu la prova finale che con quell'etichetta non avremmo mai guadagnato una lira. Così chiedemmo che venisse cambiato il contratto o che fossimo liberi di sceglierci un'altra casa. La Virgin rispose picche su tutt'e due i fronti. Così scendemmo in sciopero; deponemmo i plettri, giusto? E' durata cinque anni. In questo periodo non abbiamo registrato niente. E' stata una gara a chi cedeva per primo lo sguardo: cinque anni a fissarci negli occhi. Abbiamo vinto noi». 

E cos'hai fatto in questi cinque anni di sciopero? 
«Di tutto. Ho prodotto altri artisti, ho suonato in qualche disco. Ho divorziato. Mi sono anche svegliato una notte e mi colava pus da un orecchio; sono rimasto sei settimane sordo da una parte. Avevo il timpano perforato, un regalo dei troppo suonare dal vivo. A parte questo, ho continuato a registrare a casa ed è venuto fuori qualcosa. "Apple Venus" viene da lì: il meglio di certe idee maturate fra 1994 e 1996. Diciamo che sono stato una chioccia: ho preservato i pulcini migliori di quella covata». 

Perché hai scelto di inserire nell'album solo brani melodici e orchestrali? 
«Era un po' che volevo fare un disco orchestrale. Avevo accarezzato l'idea già con "Nonsuch". Ne sono rimaste delle tracce: se ascolti "Rook", "Wrapped In Grey", "Omnibus", "Bungalow", si va già in quella direzione. Diciamo che "Apple Venus" è una naturale continuazione di quell'idea. Non ti sto a dire che, quando ho finito, mi era tornata forte la voglia di rumore, di far casino con la chitarra. Whammm!» 

E questa è materia di "Apple Venus volume 2", giusto? 
«Sì. Sarà un disco rock, un po' come gli XTC di una volta». 

Uscirà come si dice quest'autunno? 
«Un po' più in là. Ci sono molti impegni promozionali e poi ho ancora delle parti da completare. Diciamo verso febbraio dell'anno prossimo». 

Non trovi che questa divisione abbia caricato di troppi zuccheri il "Volume 1"? 
«Troppi zuccheri? Io non direi. Lo trovo invece bilanciato, come gusti e ingredienti. Sì, magari la musica ha questo tono dolce ma i testi sono acidi. Prendi "River Of Orchids": sembra una filastrocca per bambini ma è una canzone violentemente contro le automobili. Io detesto le automobili, penso che fra cent'anni quando guarderemo indietro ci sconvolgeremo a pensare cosa abbiamo distrutto per far posto alle automobili. O "Your Dictionary": anche qui la musica è dolce ma il sentimento che la anima è acido. O "The Last Balloon". Io credo che gli zuccheri siano un involucro, a volte utile, come dal medico: un po' di miele ti fa prendere più volentieri la medicina ma, quando ce l'hai nell'organismo, ti accorgi che non è affatto dolce - è una bomba». 

Qual è il brano che preferisci dei disco?
«Be', "River Of Orchids" mi ha letteralmente entusiasmato mentre la registravo. Ci ho ballato su per ore nello studio di casa mia, mi veniva da muovermi, da togliermi i vestiti, da saltare. Ma sono fiero anche di "East Of Theatre" [sic], un pezzo che ho composto usando la chitarra-giocattolo che mia figlia usa per studiare musica». 

E in generale, nella storia XTC? 
«Mmmh, mi fai una domanda ... Comunque non un album intero, ci sono pezzi sparsi qua e là. Per esempio "Rook", un brano che mi ha sempre colpito molto. Mi ha fatto piangere, ancora oggi mi fa paura: è una canzone sul confronto con la morte, la sento molto importante. E poi "Books Are Burning", anche quello è un tema che sento profondamente: distruggere i libri, distruggere le idee, l'espressione umana, è un crimine intollerabile. Come un omicidio».

Qualcosa più indietro nel tempo? 
«Be ...... Chalkhills And Children", ecco. Una canzone molto autobiografica; che spiega il mio disgusto per la fama». 

Non ti piace avere un seguito di appassionati?
«Oh sì, mi piace: ma una cosa sono le canzoni e una cosa sono io. E allora, che prendano le canzoni e ne facciano quello che vogliono: ma si dimentichino di me». 

Fra le collaborazioni dell'ultimo periodo ce n'è anche una con i Blur. Com'è andata quella storia? 
«E' andata che a un certo punto, credo che fosse il 1993, dopo "Modern Life ls Rubbish", mi chiesero di produrre un loro disco. Dicevano che volevano avere quel suono XTC. Allora andammo in studio e registrammo tre pezzi finiti. Niente di straordinario ma cose dignitose. Quelli della casa li ascoltarono e dissero: «Mmmh, suonano troppo XTC». Ecco. Per fortuna mi hanno dato un pacco di soldi». 

Nei mesi scorsi è uscito un libro ufficiale su di voi, "Song Stories" di Neville Farmer. E'una miniera di informazioni. Sei contento di come è venuto? 
«Mmmh, non del tutto.Abbiamo parlato per settimane e mesi e quello che è uscito alla fine è poco, non abbastanza dettagliato. Diciamo che abbiamo parlato per 100 ed è stato pubblicato 20. Aggiungi che l'autore ha voluto metterci del suo e ogni tanto non ci ha pigliato. E' stato come imbandire la tavola per un banchetto e mangiare uno snack». 

Nel libro è raccontata la storia di quel disco di complessi finti di bubblegum music che volevi pubblicare con la Virgin. E'un progetto che un giorno riprenderai? 
«No, ormai lo sanno tutti, non c'è più il segreto. Mi piaceva l'idea di essere anonimo, è una cosa che mi ha sempre affascinato: uscire dalla tua identità ma anche dalle aspettative, dai desideri, e fare qualcosa di particolare. C'è una lunga tradizione rock in questo senso: Frank Zappa e Ruben & The Jets, i Beach Boys e Carl &The Passions, i Move con Eddie &The Falcons». 

Cosa pensi di "Transistor Blast"? 
«Che ci sono delle cose molto grezze. Attraenti ma con modi molto primitivi. Eravamo giovani, avevamo un sacco di energia. E' arte naif. E come tutta l'arte di quel genere, le prospettive sono imprecise, le proporzioni sono sbagliate, i colori sparano addosso. Ma c'è un che affascinante nella cosa, e quindi va bene». 

Dobbiamo aspettarci qualche altra antologia di quel tipo? Come sei come archivista? 
«Stiamo raccogliendo tutti i demos che siamo in grado di trovare e, se la Virgin ce li lascerà usare, potremmo farli uscire. Non penso a un cofanetto ma a una serie di dischi, meglio se anonimi, in una confezione assolutamente neutra. Oggettini che costino molto poco: uno li apre e poi, se non piacciono, può anche buttarli via. La mia intenzione è quella di pubblicare anche i minimi frammenti; E'un po' come gli schizzi e i disegni preparatori in pittura: spesso hanno un vigore maggiore delle opere definitive». 

Non abbiamo parlato di Dave Gregory. Siete ancora amici? 
«Mmmh ... Non ci parliamo da quando se n'è andato. A lui non piaceva il progetto orchestrale. Era anche una questione di ego o, se vogliamo, di orgoglio. C'erano poche parti per chitarra. Lui si sentiva ospite dell'album, lo considerava un mio progetto solistico. Ma non è così, almeno non più di altri dischi. E questa negatività presto l'ha estesa a tutto: il nuovo contratto con l'America, il libro che lui considerava un atto di vanità, i pezzi nuovi che un momento considerava buoni e cinque minuti dopo una schifezza. Aggiungi la gelosia per il fatto che lui non è un autore e noi sì. Insomma, a un certo punto è diventato impossibile lavorare insieme. E per fortuna è stato lui a decidere di andarsene, altrimenti avrei dovuto chiedergli io di lasciare, e sarebbe stato un brutto compito». 

Com'è il tuo rapporto con le nuove tecnologie? 
«Di normalità, di indifferenza. Qualcosa mi serve, e la uso: arrangiare i pezzi di "Apple Venus" schiacciando un bottone, be', è stato divertente. Non ho Internet, non mi interessa. Non gioco con i videogames. Però evito di fare il luddista, non predico la distruzione delle macchine. Mi fanno solo sorridere i superentusiasti, quelli che si incantano ai suoni del computer e magari ci ballano su. Qualche volta mi sembra più attraente il rumore di un tagliaerba. Perché non ballano al ritmo di un tagliaerba?»

 

 

 

 

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