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DUE PICCOLI INDIANI 

di Riccardo Bertoncelli

Linus n. 3 Marzo 1999

 

   Sta tornando la primavera. I boscaioli se ne accorgono dagli uccelli da passo, Chancey Giardiniere dai fiori bianchi del suo mandorlo: io, che vivo nel mondo del rock, dal fatto che è pronto un disco nuovo degli XTC. E' un mondo ben strano, il mio, se la primavera, questo tipo di primavera XTC, mancava da qualcosa come sette anni. Però, attenzione: non è colpa del Niño, non è la solita solfa che le stagioni (come le canzoni) non son più quelle di una volta. Questa qui è una storia molto particolare, proprio sui generis, e vale la pena di raccontarla. 
Dunque, gli XTC sono uno dei più nobili e rispettati complessi della scena inglese. Vengono dai giorni della new wave, quindi sono basso-medioevali se non ancora giurassici, e in questi vent'anni han deliziato i fan con una loro originale finissima variante dei british pop, alternando e mescolando elettrochoc e tè alle cinque del pomeriggio, cartelloni a Broadway e luci rosse a Soho, i Kinks, i Beatles e gli psichedelisti impasticcati dei '60. Il loro nome è una contrazione sballo-isterica-digitale di «Ecstasy», ma non vi passi neanche per l'anticamera dei cervello di confonderli con i coatti dei sabato notte, con i rave parties e quelle «bombe» lì. Quando cominciarono scegliendo chissà perché quel nome (prima si chiamavano Helium Kidz) le pastiglie di «E» non esistevano nemmeno e anche dopo il loro paesaggio non è mai stato quello delle discoteche e dei fumo in testa, anzi, il contrario. Qui si parla di garruli Costellini, di nipoti per quanto cresciutelli di Ray Davies e McCartney, di confettieri musicali con la più buona pasta di mandorle del Regno Unito: a cui piace, è vero, ogni tanto pazziare, scairicare adrenalina & «strane cose» negli stampi della loro crema pasticciera, ma che nel fondo dei loro cuore e spirito rimangono degli inguaribili canzonettieri. Come diceva quella loro canzone fra le prime: «this is pop, yeah yeah!». E poi, non dimentichiamolo, gli XTC son gente di provincia, nati e cresciuti nel guscio di Swindon, Wiltshire, non proprio l'ombelico dei mondo. Nessuno è mai riuscito a inurbarli in una metropoli; e quando si sono accorti che la vita on the road tipica dei complessi rock disturbava quella loro pigra sintonia provinciale, be', non ci hanno pensato un minuto ci ritirarsi dalle scene e a tornare al loro placido tran tran, alle passeggiate con il cane, alla visita al pub, alla collezione di soldatini che è la passione preferito di quell'eterno bambino (che Iddio lo benedica e non lo faccia mai crescere) di Andy Partridge, il protagonista della nostra vicenda. 
Per molti anni è sembrato che la storia fosse felice e immutabile. Gli XTC incidevano quando e come pareva a loro e ogni tanto si divertivano anche a vivere vite parallele, registrando dietro pseudonimi come i Duchi della Stratosfera o i Tre Re Magi. Ecco, era anche questo gusto dei gioco a renderli irresistibili agli appassionati sempre più numerosi e a stabilire con loro un rapporto di complicità; erano le finezze che costellavano i dischi, le stravaganti copertine dei loro 45 giri o CD singoli, il gusto per l'album-oggetto a forma di ruota di treno (a Swindon c'è un importante Museo delle Ferrovie), di reperto fossile o, com'è accaduto per una recente antologia di registrazioni Bbc, di radiolina a transistor. 

   Dietro questa lieta facciata, in realtà, si consumava una storia ben più mediocre e torbida. Gli XTC erano prigionieri di un pessimo contratto a suo tempo firmato con la Virgin Records e non solo guadagnavano poco o niente da dischi che pure vendevano centinaia di migliaia di copie ma venivano implacabilmente castrati dalla casa discografica quando sottoponevano nuovi progetti. In parole povere: quello che a noi pareva uno snobistico segno PeterGabrieliano (pubblicare cioè un disco ogni tanti anni, com'è accaduto da Skylarking in avanti) era in realtà un urlo di disperazione, il minimo di sopravvivenza che Andy P. e i suoi riuscivano a strappare a quei cerberi quando in realtà avrebbero voluto fare esattamente il contrario ed essere più prolifici di Lennon e McCartney da giovani o di Van Morrison da vecchio. Sotto la mannaia di quei signori sono finite così negli anni decine e decine di canzoni e progetti interi, tanto che un'Alta Corte di Giustizia Discografica potrebbe anche interessarsi di questi crimini e prendere provvedimenti. Ve ne dico solo una, bellissima, di queste idee decapitate: una finta antologia di finti complessi bubblegum (tutti, naturalmente, interpretati dagli XTC) chiamati Anonymous Bosch, i Capitani Cook o le Dodici Fragranze di Ercole. Ma, già che ci sono, ve ne dico un'altra, ancora più bella: un 45 giri natalizio a nome The Virgin Marys, le Vergini Marie, con gli XTC accompagnati da un coro di impiegate della Virgin tutte di nome Mary. (Se non è da urlo questa ... ). 
A un certo punto la situazione è precipitata. Dopo avere pubblicato Nonsuch, all'inizio dei 1992, i discografici hanno stretto ancora di più i freni e gli XTC si sono ribellati, praticando un vero e proprio sciopero nei confronti della loro etichetta: non avrebbero mai più inciso se non fosse stato modificato o sciolto il contratto con la Virgin. Il braccio di ferro è durato anni, mentre una serie di eventi esterni non proprio simpatici metteva a dura prova il gaudente spirito della band e la sua tenacia: Andy Partridge, per dirne una, ha subito un'infezione che lo ha reso totalmente sordo per un mese e mezzo (la legge dei contrappasso?) mentre Colin Moulding, il suo fido luogotenente, era segregato in casa ad accudire la moglie malata. Alla fine, però, i guai si sono risolti e lo sciopero è riuscito: gli XTC han resistito un minuto più dei padroni e, con una storica pedata in stereo surround, sono stati espulsi dal pianeta Virgin per trovare subito accoglienza in un confortevole asteroide discografico, la Cookin' Vinyil Records. Lì han subito ricominciato a germogliare musica in studio ed ecco il bucaneve che dicevamo all'inizio, un album di cinquanta minuti intitolato Apple Venus.

   Ora, so già che suoneranno campane a distesa per questo disco e che si sgozzeranno lietamente i montoni più grassi, «perché il figliolo che si credeva perduto è ritornato» e bla bla bla. In realtà non è proprio così. Apple Venus non è un brutto disco (perché, sia chiaro, gli XTC non hanno mai inciso un brutto disco) ma mi fa balenare l'orrendo sospetto che le difficoltà e le traversie non facessero così male agli XTC, che li rendessero anzi più concentrati e guizzanti. Senza più limiti, padroni di se stessi, hanno inciso un disco molto, troppo «seduto», lisciando il pelo a quel loro gusto onirico-Broadway-orchestrale che non è proprio il mio preferito. In effetti l'idea originale era di alternare canzoni dei genere con elettrici pezzi più rock, come in effetti è sempre stato, almeno dalla «maturità» di Skylarking in avanti; poi invece si è scelto di spaccare in due la mela, e qui tutti i brani rosolio&pop mentre più avanti nell'anno è previsto un Apple Venus Volume 2 di fibrillante psico-rock. 
Mah, credo che in fondo sia uno questione di misura. Se uno-due brani così per album stavano bene (e in Nonsuch ce n'era già qualcuno di avanzo), in Apple Venus è uno sinfonia esagerata, un cremoso pinnacolo millefoglie irrorato di alkermes e mandarinetto che fa venir le orecchie troppo dolci. D'altro canto, è indubbio che ci vuole un coraggio da leoni a pubblicare un disco del genere oggi, che sta alla musica del 2000 come un romanzo d'appendice dell'800 a un racconto splatter, che celebra il mito di Brian Wilson e Van Dyke Parks (chi?) anzichè quello di Roni Size o Howie B. E' un piacere riconoscerlo al mio diletto Partridge, oltre che convenire che c'è almeno una canzone portentosa, l'iniziale River Of Orchids, con quelle linee melodiche che s'intrecciano, eleganti e folli, come le bouncin' balls di certi giochi elettronici. Ma resta il dubbio di fondo, e viene in mente una brillante frase pronunciata da Andy P. in persona: «Quando McCartney fa certe cose, potrei ucciderlo con un Black&Decker arrugginito; poi mi ascolto, e capisco di essere caduto in un abisso del genere». Perfetto, Partridge, semplicemente perfetto. 

   Non ho ancora scritto una cosa importantissima: che con questo disco gli XTC rimangono solo in due, Partridge e Moulding. Dave Gregory, il chitarrista, ha partecipato alle registrazioni ma si è chiamato fuori; lui è un dinamico (si fa per dire), questa vita con un disco ogni tanto e no concerti lo sta arrugginendo. Fa dispiacere ma, per essere realisti, non è che cambi granché: gli XTC sono sempre stati fondamentalmente «quei due». Semmai preoccupa il fatto che il complesso ha cominciato in quartetto, è passato poi a trio, adesso diventa un duo. Sembra un racconto di Agatha Christie, dieci piccoli indiani a Swindon. E, nel caso di un'ultima eliminazione, chi mai la vittima? (immagino una battaglia fino all'ultimo soldatino, sulle scale che portano all'attico-studio di cosa Partridge).

 

 

 

 

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